Come può una fotografia di guerra essere «bella»?

Guerra e Fotografia, una riflessione

Riprendo integralmente un articolo di Valeria Palumbo da “Il Punto del Corriere della Sera” del 18 marzo. Ci si interroga sulla “bellezza” delle fotografie di guerra. Possono essere tali?
E se sì, perché?

editorialistadi VALERIA PALUMBO
Che cos’è una «bella» fotografia di guerra? 
La domanda può sembrare addirittura oscena. Ma ha ragione il quotidiano britannico Telegraph a porsela. Perché le fotografie possono avere un tale impatto sull’opinione pubblica da indurre i governi a mutare le loro politiche e quindi incidere sul corso di un conflitto. Senza la foto scattata da Huynh Cong “Nick” Ut, dell’Associated Press, dei bambini colpiti dal napalm, in fuga dal paesino di Trang Bang vicino al confine con la Cambogia, l’8 giugno 1972, e in particolare l’immagine della piccola Kim Phúc che correva nuda gridando dal dolore per le ustioni, il mondo si sarebbe davvero reso conto dei crimini di cui gli statunitensi si stavano macchiando in Vietnam? Le proteste sarebbero state così di massa, tanto da accelerare il ritiro? E, ancora prima, quanto avremmo aperto gli occhi sull’orrore della guerra nel fango senza la foto del 1966 di Larry Burrows per Life che si intitola Reaching Out e mostra il sergente Jeremiah Purdie con una vistosa fasciatura sanguinante alla testa che viene accompagnato accanto a un altro compagno ferito, completamente coperto di fango, in una radura che ricorda le immonde trincee della Prima guerra mondiale?

imageLa storica foto scattata in Vietnam da Huynh Cong “Nick” Ut, dell’Associated Press, dopo un attacco Usa con il napalm

Certo, non c’è sempre bisogno che siano «foto d’autore» per suscitare un’onda di emozione. Le immagini di marines americani accanto ai corpi carbonizzati dei soldati iracheni e quelle nel carcere di Abu Ghraib erano, di fatto, «foto ricordo». Ma, diffuse dai media, hanno fatto aprire inchieste decisive contro gli abusi. Però, proprio come la penna di un buon cronista o la cronaca di un buon inviato televisivo restituiscono con maggiore efficacia l’impatto di una battaglia o di un bombardamento (e più sono asciutte, prive di frasi fatte e stereotipi e meglio riescono a farlo), anche le foto «d’autore» hanno la capacità di conquistare l’attenzione dei più distratti. E di rimanere impresse nel tempo. Tanto da trasformarsi quasi in ricordi privati. Se pensiamo alla guerra in Afghanistan, che pochissimi hanno visto di persona, ci vengono subito in mente alcune fotografie. A cominciare dal ritratto della madre vestita di bianco che assiste un bambino ferito, dalla vistosa fasciatura alla testa, realizzato da Paula Bronstein, per Time Lightbox (Pulitzer Center For Crisis Reporting) e vincitore del World Press Photo nel 2017. Perché?

È proprio quello che l’articolo del Telegraph, firmato da Lucy Davis, indaga. Partendo dalla foto che, a oggi, è quella che ha avuto maggiore impatto per quanto riguarda la guerra in Ucraina: il primo piano di Olena Kourilo, scattato da Wolfgang Schwan, il 24 febbraio 2022 a Kharkiv. Anche la mano insanguinata di Tatyana Perebeynos, la donna uccisa a Irpin con i figli Alisa di 9 anni e Miketa di 18, con il trolley intatto in primo piano, scattata dalla giornalista free-lance Lynsey Addario e pubblicata sul New York Times, ci ha scavato dentro. Forse più per la grottesca normalità del trolley che per i lenzuoli a coprire i corpi. Ma il ritratto di Olena, spiega Davis, non ci abbandonerà perché la donna, con la testa fasciata e il volto coperto di sangue, ci guarda dritto negli occhi. Le si vede anche chiaramente il nero delle pupille. Sembra che, quasi con dolcezza, ci stia per dire qualcosa. È una storia. E ci riguarda.

imageOlena Kourilo dopo il bombardamento di Kharkiv, il 24 febbraio scorso (foto di Wolfgang Schwan)

Va detto che questa non è la prerogativa della fotografia. Manca quasi sempre ai video, in genere troppo ricchi di informazioni perché un gesto o uno sguardo si fissino per sempre nella nostra memoria. Ma è una caratteristica di alcuni dipinti che, prima o accanto alle foto, hanno reso evidente che nessuna narrazione eroica può salvare la guerra dal suo orrore. C’è Guernica di Pablo Piccaso, che chiude in una «stanza» la devastazione del bombardamento a tappeto della cittadina basca il 26 aprile 1937 a opera dell’aviazione tedesca e italiana, durante la guerra civile spagnola. Ma già prima alcuni artisti avevano saputo raccontare la violenza selvaggia, anche aggirando censure e usando metafore. È il caso della Salita al Calvario del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. Come racconta benissimo un film del 2011 del regista polacco Lech Majewski, I colori della passione (qui la recensione che ne fece Maurizio Porro sul Corriere) il quadro contiene addirittura 500 personaggi e ripercorre la feroce repressione che la Spagna cattolica operò nelle Fiandre, calviniste e ribelli, durante la rivolta del 1555-1572. Brueghel non fa altro che immaginare la salita di Gesù al Calvario al suo tempo. Non era una novità: anche i pittori rinascimentali italiani ambientavano le scene del Vangelo nel Cinquecento. Ma qui la cronaca era così vicina, i riferimenti così espliciti (come la ruota a cui venivano legati e lasciati agonizzare i ribelli catturati e la picca con cui un soldato tiene lontana una donna che cerca di impedire l’arresto del suo uomo) che qualsiasi contemporaneo capiva subito che cosa, realmente, Brueghel stesse raccontando e denunciando. Fra l’altro, il pittore scelse di porre in primo piano, e quindi lontano dalla croce, la Madonna dolente, attorniata dalle donne. Ovvero ha privilegiato il racconto del dolore a quello della lotta.

image«Salita al calvario», di Peter Brueghel il Vecchio, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Lo faccio notare perché la fotografia di guerra, o comunque quella di denuncia delle violenze e delle ingiustizie sparse per il mondo, attinge, già dalla Prima guerra mondiale, all’iconografia sacra occidentale. La foto che abbiamo già citato di Paula Bronstein è, anche nella costruzione formale, una Pietà. È interessante notare che l’immaginario occidentale, e in particolare la nostra tendenza a sintetizzare la sofferenza umana nella Crocifissione, ha finito con il diffondersi in tutto il mondo. Non è soltanto perché in Medio Oriente, in Iran e in Afghanistan le donne sono ancora velate e quindi le loro foto del lutto fanno pensare immediatamente al compianto sotto la Croce. C’è una scelta esplicita, anche se forse inconscia, dei fotografi, a richiamare quell’immagine. Perché è come far appello a un linguaggio subliminale, a un’equivalenza che chiunque conosca l’arte occidentale (o l’abbia introiettata attraverso le altre forme di comunicazione visiva moderna) riconosce all’istante. Se una donna velata piange sostenuta da altre donne noi sappiamo che piange un figlio (maschio). Tanto che una foto del 1997 di Zaourar Hocine per Afp fu intitolata direttamente La Madonna di Bentalha: ritrae una donna algerina che si dispera dopo il massacro di Bentalha. Hocine ci vinse il World Press Photo. Ma l’immagine che vedete qui sotto non ritraeva, come fu detto all’inizio, una madre disperata per l’assassinio, da parte dei terroristi, dei suoi otto figli, bensì l’urlo di dolore di Oum Saad per l’omicidio di suo fratello, sua moglie e la loro figlia. Cambia molto, visto che sempre di vittime di un attacco terroristico si tratta? Sì. Perché dimostra che il nostro immaginario tende a prevalere sull’immagine. Che quando si insiste sul simbolo, il simbolo può diventare più forte della storia che racconta e quindi la trasforma in uno stereotipo. Di più, a quel punto la foto, che senz’altro ci emoziona, non ci informa. Anzi può traghettare fake news.

imageLo scatto di Zaourar Hocine per l’Afp che ha vinto il World Press Photo nel 1997

Anche la guerra di Ucraina, per quanto sia chiaro chi siano gli aggressori e chi gli aggrediti, chi sia il gigante prepotente e chi il debole, corre questo rischio. Le foto non mostrano mai la «verità»: raccontano una versione della storia. Esattamente come le parole. Stai poi a noi leggerle. E proprio nelle foto “d’autore”, quelle che puntano dritto al nostro cuore, possono nascondersi le insidie maggiori. Certo, aggiunge il Telegraph, l’uso degli smartphone per fotografare, la loro immediatezza, piccolezza e facilità d’uso, ha reso possibile avvicinarsi ancora di più ai soggetti, e ha anche ha reso più difficile che le persone si “mettano in posa”. Ma l’inquadratura resta una scelta per il fotografo (a meno che non sia particolarmente maldestro). E diverse inquadrature raccontano storie diverse. Non basta, quindi, come ribadiva Robert Capa, stare “vicino” al soggetto per fare una buona foto. Occorre essere il più possibile onesti. Proprio come accade mentre si scrive.

Dopodiché non eludiamo la domanda iniziale: che cosa una “bella” foto di guerra? Secondo Davis del Telegraph, l’autrice della foto di Irpin, l’americana Lynsey Addario, che ha scattato foto in Iraq e Afghanistan (le sue Memorie sono diventate un film, in cui era interpretata da Jennifer Lawrence), ha detto che di essere anche alla ricerca della bellezza, perché «l’esperienza mi ha insegnato che un’immagine troppo cruda fa girare la gente dall’altra parte. Voglio ottenere il contrario». Don McCullin, veterano tra i fotografi di guerra, ha dichiarato, sempre al Telegraph nel 2013: «C’è una bellezza nella guerra. Non è mai troppo lontana, e benché sia l’ultima cosa che ti verrebbe in mente, la vedi. Ho visto uomini bianchi e neri piangere la morte l’uno dell’altro, uomini cullare teneramente i feriti e prendersi cura di loro. È questa la bellezza. Non ha a che vedere con gli alberi o i tramonti. Ma con la profondità umana».

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