Genius Loci. Gli echi del passato

Nullus locus sine genio

A volte, percorrendo quei gangli vitali che sono le nostre strade, quel sistema di vene, arterie e capillari che incanalano il fluire delle nostre vite attraverso quell’immenso organismo che è il nostro spazio ed il nostro tempo, a volte ci si imbatte – improvvisamente – in luoghi che hanno in sé un profondo silenzio pur se circondati da rumori.
Un silenzio che non è un vuoto, in quanto intriso del ricordo di chi ha lasciato sé stesso su quel fazzoletto d’asfalto, ma una tacita presenza che riesce, in qualche modo, a comunicare, a parlarci.
Vedi scritte e fiori ormai spenti, frammenti di esistenze legati a un albero o a un palo e il mondo, il fragore che ti circonda, semplicemente, cessa di esistere.
Guardiamo, e non vediamo, tanti di questi sacer locus lungo il nostro cammino. Guardiamo e fuggiamo via, perché sono tanti, perché ci fanno paura. Ma quando ci fermiamo a osservare, allora ci accorgiamo del baluginio che la vita lì ha lasciato, delle tracce della memoria che non vuole spegnersi.
Guardiamo il profondo silenzio di quei fiori, di quelle scritte, per riuscire ad ascoltare le storie che vi sono narrate. Se ci voltiamo, verso la strada, verso quel fiume di vite che proprio lì ne ha lasciata cadere una scorgiamo un mondo che non si ferma, che non ascolta, un mondo fatto – quello sì – di fantasmi che si sovrappongono sfumando l’uno nell’altro, in un mosaico di attimi, di illusioni, di forme.
Ma in quelle testimonianze di una vita che fu, in quelle memorie che gridano ai sensi, c’è silenzio.
Un silenzio che ci accompagna, ci osserva dai bordi delle nostre strade, ci invita.
Quel silenzio che ci chiede, solo, di essere ascoltato.

Questo lavoro, che fa parte di un progetto più ampio incentrato su Roma, la mia “Ghost city”, si prefigge la sensibilizzazione al tema degli incidenti stradali che, con frequenza ormai quotidiana, spengono in modo brutale e inaspettato vite spesso giovanissime.
Al contempo il progetto vuole indagare il rapporto che esiste nelle nostre città tra presente e passato, dove i luoghi attuali si confondono con quelli di ieri, dove mondi ed esistenze solo apparentemente lontani si sovrappongono e dove le risonanze del trascorso che fu si insinuano nei gesti dell’oggi.
Il nostro quotidiano è perlopiù fatto di un continuo presente e il nostro pensiero si proietta più facilmente al domani – c’è sempre qualcosa da programmare per il futuro – che allo ieri, a quanto, e a chi, ci ha preceduto.

E quindi, cos’è il passato, oggi, per noi?

In una città con quasi tremila anni alle spalle è facile confondersi e pensare al passato misurandolo in secoli, immaginandolo come quello in cui a calpestare queste stesse nostre strade erano persone che indossavano calzari e tuniche.
Ma il passato andrebbe misurato con metri diversi, basati più sulla memoria e sui sentimenti a essa connessi che sul calendario. 

I sentieri delle nostre vite si snodano lungo vie e piazze che crediamo essere frequentate esclusivamente dai viventi. Non è così. Quei luoghi, quelle strade, sono spazi vivi, organismi in cui frammenti delle vite passate, di quelle di ieri, dell’altro ieri e di tanti, troppi giorni fa per poterli contare si ripercuotono sui nostri percorsi, incrociano il nostro sguardo e influenzano il nostro cammino.

Gli echi del passato, delle vite che furono e di quelle che avrebbero potute essere ancora accanto a noi se non fossero state spezzate all’improvviso, contribuiscono a rendere quell’organismo un unicum permeandolo di quella specificità che spesso chiamiamo “atmosfera” di un luogo e che ne caratterizza il genius loci.

Sempre più spesso a rammentarci di queste esistenze interrotte, di queste parallele “presenze”, sono quelle espressioni della memoria con cui, sotto la forma di un improvvisato altarino, fin dall’antichità contrassegniamo come sacri luoghi il luogo del trapasso, il luogo ove la vita si è spezzata deponendo fiori, oggetti, dimostrazioni d’amore.

Roma, viale Tor di Quinto

Un mosaico di ricordi rivolti verso il tratto di strada dove qualcuno, o qualcosa, ha innescato quel meccanismo di morte che finisce per sconvolgere tante vite e che rappresenta, ai miei occhi, il tempo che passa – indifferente – sovrapponendo storie ed esistenze a un monito che, anche quando l’ultimo fiore, l’ultimo peluche, saranno scomparsi e l’ultima scritta sarà cancellata resterà lì, a suggerirci di rallentare, sulla strada e nella vita, per non perdere di vista quello che davvero conta.

I bordi delle strade, in città e fuori, sono disseminati di queste attestazioni del dolore. Perlopiù provvisorie, composte da mazzi di fiori – spesso in plastica – chiusi nel cellophane, sciarpe, biglietti. Ma anche radicati al luogo attraverso piccole lapidi, targhe, a volte con vere e proprie edicole funerarie.
Attestazioni che diventano “pietre d’inciampo” per il nostro sguardo e che, in una sorta di sospensione spazio-temporale dove sembra che il mondo dei vivi si intersechi con quello dei defunti, ci portano dentro storie di tormento e di amore.

Ormai elementi costitutivi del paesaggio, frutto di una ritualità religiosa che si perpetua fin dai tempi antichi pur essendo, col passare dei secoli, cambiate le divinità a cui le suppliche sono rivolte, questi altari alla memoria esprimono il senso della pietas popolare soddisfacendo il << […] bisogno dell’uomo che vuole conservare la continuità con il vissuto passato, come a garanzia che vi sia una continuazione della “vita oltre la morte”, pur essendo oggi più che mai proiettato nel futuro dalle esigenze del mondo contemporaneo[1]>>.

La compenetrazione nel quotidiano di queste testimonianze di una esistenza che persiste sotto forma di memoria, singola o collettiva, le rende parte integrante del nostro ambiente: le viviamo, con angoscia o indifferenza, attraversandole nei nostri spostamenti.

Roma, via Germana Stefanini

Bisogna fermarsi a guardare con attenzione, però, per comprendere davvero le private emozioni che hanno costruito quel singolo altarino perpetuando, al contempo, la comune ritualità con cui si cerca un contatto con i defunti e col passato.
Bisogna leggere i nomi, le frasi lasciate lì, sui muri o sulla carta, guardare gli oggetti che accompagnano nell’aldilà chi se ne è andato. Il concetto culturale o religioso di ciò che si ritiene accadere dopo la morte comunica il culto della morte stessa e dei defunti esprimendolo attraverso questi “lasciti” sul luogo della dipartita. Si manifestano, in essi, tutte le sfumature dei sentimenti, dall’affetto al rispetto, dall’amore alla rabbia per l’aver abbandonato questo mondo così improvvisamente.

Leggere il nome, comprendere l’età – attraverso date (non sempre presenti) o altro -, ci fa sentire più intensamente queste presenze e contribuisce a creare, nei nostri territori fisici e mentali, una toponomastica diversa, sotterranea e legata alla morte e alla sua accettazione come realtà con cui convivere.

Fermarsi nei pressi di questi segni del dolore, di queste disperazioni che da private diventano di tutti, quindi anche nostre, ci pone di fronte a tematiche da cui preferiamo fuggire, a paure ancestrali che si riaffacciano, a riti primigeni con cui consacrare un luogo speciale ed esclusivo. Ci pone di fronte alla morte violenta, improvvisa, quella che non è “naturale” o racchiusa nelle discrete mura di un ospedale, invisibile ai più e che la nostra società ha accettato e rimosso dalla propria coscienza collettiva. No, questa morte fa rabbia e spavento in quanto non programmata, non gestita, in quanto brutale e inaspettata.

Quegli altarini, quindi, sono la rappresentazione di un rifiuto oltre che il tentativo di esorcizzare una paura. Il rifiuto del cimitero, del rito collettivo e tradizionale. E se le spoglie mortali, se non cremate, debbono riposare in cimiteri che sempre più somigliano a insignificanti e impersonali palazzoni di periferia, perché non lasciare direttamente sulle strade le “spoglie immortali”, quelle legate al ricordo?

Perché non sovrapporre ancor di più questa architettura della morte a quella dei vivi stratificando tempi, esistenze, emozioni?

Questi luoghi, che ci circondano, che sorgono all’improvviso, che nel giro di qualche giorno spesso diventano impossibili da ignorare per le loro dimensioni o fattezze, questi luoghi misurano il passare del tempo scolorendosi, appassendo, disfacendosi nelle loro rappresentazioni fisiche di pari passo con le tracce lasciate da chi se n’è andato nel cuore e nella memoria di chi le aveva deposte.
Alcuni sopravvivono finché sopravvive chi li ha voluti, altri, semplicemente, scompaiono.
Finché non vengono sostituiti da un altro nome, da un altro dolore.

Roma, via dell’Acqua Traversa

[1] L. Gasbarrone “Prolusione. Il culto della morte nei secoli: ieri, oggi e forse domani” in Atti della Accademia Lancisiana
Anno Accademico 2017-2018 Vol. LXII, N. 1 Gennaio Marzo 2018 I: 4-13

Immagini collegate: